Arte

 

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CLOUDLESS DI LORIS CECCHINI, NUVOLE DI MATERIA E POESIA SUL TEATRO STUDIO DI SCANDICCI.
Autore: Sandra Salvato
Data: 24.04.2012

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Vai all'evento: OA - cinque atti teatrali sull’opera d’arte

Gli artisti correlati: Loris Cecchini



Con l’aiuto della “luce”

Lunedì scorso si è conclusa la quarta tappa (prima è toccato a Pirri, Castellani, Kounellis) di OA – CINQUE ATTI TEATRALI SULL’OPERA D’ARTE, l’interessante operazione di Giancarlo Cauteruccio che celebra - pur non smettendo di indagarla - il legame tra differenti creatività. Questa volta è toccato a Loris Cecchini, tra gli artisti italiani più noti e apprezzati anche all’estero, approcciare il teatro con una nuova versione dell’operaCloudless, il cui assemblaggio materico - scale in alluminio intersecate e irretite da un ammasso nebuloso di 50 mila sfere di plastica - tende, nella sua variabilità e mobilità, all’organicità. L’installazione, nata per contesti museali come il PS1 di New York e il Palais de Tokio a Parigi, sospende la scena come in un’attesa dove persino l’azione rischia lo stallo. Se non fosse stato per la luce, visibile sostanza che lima i profili dei sette attori presenti, penetra le nuvole, riflette ritmicamente la musica, indirizza lo sguardo delle due platee poste frontalmente, tutta la performance sarebbe apparsa come una realtà collassata, frammentata in un vortice di varie e differenti realtà, anche virtuali, che non “riescono” a dialogare. “Per quanto riguarda la virtualizzazione il teatro cerca da sempre un rapporto con questa - dice Cecchini - ma ha pur sempre la presenza del corpo, e così in un certo senso si crea un corto circuito. L’arte visuale è più un precipitato di questa forma culturale, una sorta di condensazione di quegli elementi che formano il linguaggio di tutte le arti visuali“. Arriva quindi la luce, che crea, penetra, modula replicando e attivando la reciprocità tra questo corpus di soggetti immobili e mobili, di situazioni. Grazie alla luce, “elemento di grande energia poetica” osserva Cauteruccio, i dati divengono comunicazione, e la lentezza come anche l’improvvisa velocità - della musica live, delle ombre proiettate, delle immagini, della voce narrante - prendono significato. Nell’ensemble. Le nuvole di Cecchini, a questo punto diventano il simbolo di un passaggio difficile eppure assolutamente tipico del nostro tempo, quello tra naturale e artificiale, tra reale e virtuale. C’è da chiedersi se il superamento delle frontiere tecnologiche non esprima in Cecchini l’impossibilità cioè per l’individuo di crescere nel senso a beneficio della creazione di nuove forme scollate dalla realtà. 

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Loris Cecchini, Monologue Patterns 2004

Tuttavia queste nuvole dimostrano di avere una pelle, sintetica certo, ma funzionale alla presa di coscienza. Per non perderla, per non perdersi, Cecchini disegna architetture, costruisce l’opera come un diagramma aperto che indica le possibili direzioni da prendere. Le scale diventano un elemento di misura, di riferimento al corpo che può guardarsi dall’alto, cercare di colmare una distanza che allo spettatore comunque apparirà visuale ma soprattutto poetica. Vero è che l’indagine dell’artista non si limita solo alla rappresentazione, poiché - dice “l’improvvisazione permette una libertà, e questa può riguardare anche semplicemente la modalità del design”. La materia insomma diventa supporto per altri progetti e progetti di supportoL’importante è lavorare in termini sculturali e poetici, trasfigurando lo spazio. Su tutto questo la luce è comunque l’unico elemento persuasivo e indispensabile in grado di dilatare la nostra percezione fino ad aiutarci nel dialogo con l’opera d’arte. L’ammasso di particelle e scale che ci cala luminescente davanti agli occhi dal cielo chiuso e finito di un teatro, sono la chiave di accesso per emergere dal caos, dalla disorganizzazione ordinata che tale esempio di arte-architettura suggerisce. 50 mila cellule vengono destinate dall’artista a nuove pieghe, come se nell’infinita variabilità delle forme non si nascondesse solo l’oscillazione tra due poli, uomo e tecnologia, naturale e artificiale, ma anche la soluzione alla perdita di senso che circola nell’irreale. Le scale possono essere raggiunte, la materia domata, il bianco fatto risaltare da altra luce. Ecco la vibrazione che la chitarra di Finaz, fondatore della Bandabardò, contribuisce a diffondere guidando la drammaturgia di un oggetto giudicato non a caso dall’autore, sculturale. In tal senso la natura del corpo trova la sua conciliazione con l’artificio dell’opera in quanto elemento che arriva come ulteriore step dell’esperienza creativa. Non deve informare, non è questo lo scopo. E’ la materializzazione della dimensione morale e quindi assolutamente rapportabile all’uomo che l‘ha inventata. E se anche i testi di Baudrillard, Michaux, Kroker combinati e recitati da Cauteruccio spingerebbero alla lettura critica di un cibernetico presente, autorizzando l’impressione che l’uomo si sia smarrito tra il naturale e l’artificiale, una via d’uscita comunque c’è. E’ come il teatro per l’opera d’arte contemporanea, una possibilità di coniugazione, di riuscita c’è sempre. OA, al suo quarto atto, ne è la dimostrazione. 

In copertina: Loris Cecchini, Cloudless

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PRESENTATO A FIRENZE IL FILM DOCUMENTARIO SU MARINA ABRAMOVIC.
Autore: Sandra Salvato
Data: 02.04.2012

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Vai all'evento: MARINA ABRAMOVIĆ - THE ARTIST IS PRESENT

Gli artisti correlati: Marina Abramović



CINEMA E PERFORMANCE. L'arte a supporto dell'arte. 



Lacrime dentro e fuori dal grande schermo. A platea e galleria esaurite il film di Matthew Akers (USA, 2012, 106’), MARINA ABRAMOVIĆ:THE ARTIST IS PRESENT, proiettato in un fuori programma eccezionale del Festival di Silvia Lucchesi Lo Schermo dell'Arte il 22 marzo scorso al cinema Odeon di Firenze, ha rappresentato un momento quasi catartico per i tanti fortunati spettatori. Chi non è potuto andare a NY nel 2010 si è lasciato sedurre a tal punto da questo racconto per immagini da vedersi seduto non più all'interno di una sala cinematografica ma al Moma, di fronte alla performer più interessante e coinvolgente del nostro contemporaneo. Potere del cinema o dell'Abramovic? A ben vedere di entrambi. Da un lato c'è la magia della pellicola, la stupefacente mescolanza di vita ed illusione, dall'altra irrompe l'arte nella sua accezione più faticosa da comprendere, la performance. L'intelligenza, la creatività, la preparazione fisica e mentale, sono gli ingredienti di questa particolare opera aperta, non convenzionale di cui la Abramovic è coinvolgente interprete. Non è tanto il capire che viene richiesto, quanto l'avere il coraggio di lasciarsi andare. Che di fatto poi costituisce l'unica vera porta per accedere alla comprensione delle cose. Marina è present, nel senso che è disposta a spiegarsi da quando è entrata in scena negli anni settanta. Marina Abramovic ora è un'opera omnia da leggersi tutta d'un fiato, una performance lunga quarantanni che attinge alla vita ed è quasi impossibile scomporre in tanti quadri quanti sono quelli che compongono il documentario. La sua esperienza emotiva è un bagaglio difficile da respirare in un solo momento, i sentimenti sono attivi, non sono attivati cioè per la ricerca di un effetto. L'identità della performer infatti non è schiacciata dal gioco della rappresentazione poiché la ricerca dell'artista corrisponde a pieno alla ricerca dell'individuo, proteso quanto mai ad un approdo armonico con se stesso e l'ambiente che lo circonda. Non si sperimenta un'idea ma il proprio io senza il cruccio di passare di moda, esaltando la bellezza del momento, dell'happening in una linea narrativa lasciata- pare – alla casualità, che non abita alcun spazio privilegiato a favore invece della pluralità di luoghi. Così il furgone che Marina ha utilizzato con il compagno di vita e di lavoro Ulay alla stregua di una casa mobile è funzionale all'attuazione di un progetto di vita ancor prima che artistico. Poi, però, arriva il bisogno del pubblico proprio come il respiro si nutre dell'aria, il grande schermo della sua platea. Il ritratto d'artista è dipinto da chi lo osserva. Tutto, insomma, accade mentre si mostra, si mostra a qualcuno. Non importa che la vicinanza tra performer e spettatore sia reale, in quanto il circuito di energie che si viene a creare nell'atto dell'osservazione è tale da creare un osmosi emotiva anche per via indiretta. Il cinema diventa così il luogo/veicolo dell'azione a distanza che forma un sistema unico e relazionale tra uomo e ambiente. L'approdo armonico tra i due soggetti è dunque il fine ultimo dell'azione performativa. Lo dimostra il flusso continuo e selvaggio di persone che nel 2010 hanno affollato la sala del museo americano in cui Marina sedeva con la forza di un'impalcatura ieratica ogni giorno, per tre mesi, accogliendo oltre 1400 tra uomini donne e bambini. Uno spazio che è divenuto epico come il suo stare silenzioso, sfuggito al vocabolario dei suoni, dei rumori. Solo uno sguardo immerso in un altro sguardo e la misteriosa suggestione che apre sull'intimità di un mondo d'artista. Lo schema è quello di Nightsea Crossing che la Abramovic sperimentò negli anni ottanta insieme al collega tedesco, una sosta necessaria all'interno di una cerchia gravitante di persone che funge da habitat. “Ci sono andata due volte – dice Silvia Lucchesi -, e anche se non sono riuscita a sedermi è stato davvero un esperienza importante. Ero a poca distanza da lei, da questa donna dall'aura fortissima, di cui si può avvertire il suo entrare in comunicazione con gli altri”. Siamo di fronte all'estetica della morale, a quella libertà interiore da cui scaturisce e si rinnova l'indagine, mai l'anarchica messa in scena dei sentimenti fine a se stessa. La performer di Belgrado è un intrigo di disciplina e spiritualità che ella tenta di codificare. Nel decalogo dell'artista di cui ha dato lettura a Firenze in una precedente occasione – anche questa riportata nel film – Marina teorizza un manifesto, una serie di azioni che come uno spartito invariabile indirizzino l'energia creativa. Scrive, tra le altre, che un'artista non deve mai innamorarsi di un altro artista. Perchè, chiede ancora Lucchesi, non deve andare così? Forse la risposta sta in quello spettacolare addio sulla muraglia cinese, nel drammatico distacco da Ulay, nella fragilità che rompe l'equilibrio tra amore e lavoro. Le domande arrivano una dopo l'altra, la curiosità forza l'azione a correlarsi con un preciso significato, l'arte a parodiare la vita. Capire perchè Marina Abramovic sia cambiata dopo questa intensa retrospettiva, scoprire come ciò sia avvenuto dentro e fuori il suo mondo privato è un punto interrogativo che rimane in sospeso. La sua performace lascia infinite architetture di emozioni e sensi ancora da decifrare. Se non altro abbiamo scoperto come la performer riesca ad essere presente. Mettendosi ad esempio a disposizione degli altri, facendosi trovare in un determinato luogo, collegando arte, tempo presente, pensiero ed animo in risposta ad una necessità intrinseca dell'essere umano. Marina Abramovic: The artist is present, premiato con il Panorama AudienceAward per il miglior documentario al 62° Festival del Cinema di Berlino, è un'opera chiamata a rappresentarne un'altra di più difficile inserimento tra le arti maggiori. La scommessa è proprio questa, portare la performance al livello delle altre espressioni della creatività. E c'è di che stare tranquilli se in questa direzione ci porta proprio il cinema, che – dice bene la Lucchesi – è il mezzo popolare ideale per spiegare una cosa difficile quale l'arte contemporanea si presenta. Un altro passo in avanti verso l'abbattimento di barriere intellettuali portando l'arte dalla parte del pubblico.

 

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PRIMO ATTO: LA PAROLA, CON L’OPERA (GAS) DI ALFREDO PIRRI
Autore: Sandra Salvato
Data: 15.02.2012

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Gli artisti correlati: Alfredo Pirri


  A-O (Azione-Opera): Al teatro Studio di Scandicci un progetto sulle lingue del teatro e su alcune forme fondamentali dell’azione scenica: parola, danza, musica, luce e canto

Il teatro come sintesi dei vari linguaggi dell’arte. Contemporanea. Vent’anni dopo l’inizio di questa avventura, sempre vissuta all’insegna della ricerca, della sperimentazione, il percorso si fa ancora di più gioco d’insieme. Non è più lo spettacolo ad occupare il palcoscenico, a colmare il divario tra arte e realtà, ma l’opera e il suo possibile sviluppo. Nel nuovo sperimentale progetto “OA – cinque atti teatrali sull’opera d’arte” di Giancarlo Cauteruccio partito il 29 gennaio al teatro Studio di Scandicci, i due pubblici – quello dell’arte visiva e quello dell’arte performativa – si incontrano, si fondono per la prima volta. Ad un tratto, come sostiene anche Claes Oldenburg, non si riesce più a vedere in modo così netto la distinzione tra teatro e arti visuali, e la nuova dimensione culturale trova il suo centro in un’ibridazione creativa che incanala in nuove strade di percezioni e di ascolto. Il teatro diventa un’esperienza totale e l’opera, superati i limiti del contesto convenzionale, scopre una diversa dimensione narrativa in relazione alla vera protagonista di questo lavoro, la parola. La prima tappa del progetto di Cauteruccio coinvolge Alfredo Pirri che del deus ex machina del Teatro Studio è stato compagno di scuola e collaboratore per i primi spettacoli della Compagnia Krypton, dei quali ha realizzato scene e immagini. Tracce materiali che conducono fino a qui, ad un giorno di confronto sul senso profondo del teatro, del suo esistere in relazione ad altre forme espressive e che nella nuova indagine appare diverso, deciso a superare la crisi della narrazione contemporanea, sempre più condizionata dai mercati e dall’abbassamento della qualità. 

Con Pirri il regista tira in causa la potenza del linguaggio come forma di resistenza insieme alla forza evocativa dell’inazione. Quando il teatro insomma si misura unicamente sulla parola bastano due altoparlanti d’epoca, le voci di un poeta e di un filosofo, e il respiro gelido di un’opera capace di insinuarsi nel teatro al pari della storia che vuole rappresentare. La pagina che si rilegge sotto altra luce che non sia quella pensata e costruita appositamente per l’installazione, GAS, riporta la tragicità dell’Olocausto e il dilemma: è lecito scrivere poesia dopo Auschwitz? Sarà forse necessario? Il passato non è passato abbastanza per dichiarare esaurito il tema che, evidentemente, si perpetua nel gioco dialettico ricostruito “ad arte” tra due grandi assenti, Theodor W. Adorno e Paul Celan. In questo contesto l’opera facilita la risposta, in quanto nella necessità di perpetuare la memoria si rappresenta apertamente anche la speculare necessità di utilizzare l’arte per veicolarne il dolore, la tragicità. GAS, che Pirri ha presentato per la prima volta a Torino, alla Galleria Tucci Russo e riproposto a Cracovia nel 2006 in occasione di una doppia personale con Miroslaw Balka, è perfetta anche per la sua dimensione ambientale, nemmeno fosse stata pensata per questo specifico luogo. E’ bastato invertire l’ingresso degli spettatori per poter offrire ben due prospettive: una verticale, più geometrica, dall’alto, mentre le persone camminano su un ballatoio affacciato sullo spazio scenico, e orizzontale, quando una volta scesi, si è costretti ad innervarsi tra i sette elementi di legno e gesso dipinti internamente. Poi interviene il teatro con le sue luci a sottolineare il meccanismo del riverbero dei colori, illuminati a loro volta da una cupoletta posta all’interno delle tavole, sì che ognuna diviene allo stesso tempo proiettore e schermo; doppia visione che ricalca quella che Pirri propose nell’89, allestendo la mostra su due piani differenti. Anche la pittura dunque, segna un ulteriore chiarificazione in questa indagine, un elemento di connessione tra il dentro e il fuori, come se lo spettatore dovesse capire se stare dentro o fuori dell’“opera d’arte totale”. 

Il rapporto intimo che ci lega – ci potrebbe legare - al teatro, pare suggerire l’autore, è simile al rapporto che intercorre tra parola e pittura. Lo rappresentano bene gli attori della performance, figure prestate come maschere neutre a margine di una scena intente a sfogliare in sincrono le pagine dipinte di un libro. Una connessione comunque più poetica, avverte l’artista di origini lucane, rispetto a quella che realizzò a Torino, dove la ripetizione della parola GAS incisa sui tombini dentro la galleria era ritmica, ossessiva e condizionava lo sguardo del visitatore. E chi osserva si comporta in modo da non spostare l’aria, da non offendere il silenzio cui l’opera invita. Opera d’arte che pare ci appartenga, che possiamo comprendere in tutte le sue stratificazioni, materiali e immateriali, “ma che niente di tutto questo basta ad esaurirla”. Così la parola, per la quale Pirri nutre una grande passione – soprattutto per quella poetica – “dice, ma nel momento in cui dice sfugge anche al dire”. Abbracciati dalla musica di Shönberg, che come un credo dimenticato si ripete ad libitum per imprimersi nella memoria, ascoltiamo l’ultima poesia di Celan prendere distanza e salire “come fumo nell’aria”. Una luce rossa è accesa, il pubblico ha scoperto una nuova narrazione, arrivata per altre strade possibili, inedite, comunque originate da un percorso maestro che mai del tutto è possibile abbandonare. Ecco l’armonico equilibrio di un teatro in continua ricerca di sé. 

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A FIRENZE CHIUDE UNA MOSTRA CHE HA SUSCITATO PLAUSI COME ANCHE POLEMICHE ACCESISSIME,
Autore: Sandra Salvato
Data: 04.10.2011

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Vai all'evento: Rabarama - ANTICOnforme

Vai alla sede: Palazzo Pitti

Gli artisti correlati: Rabarama



RABARAMA e le impronte di vita sulla pelle. Storia di una ricerca filosofico-estetica che concilia pensiero, emozioni, involucro. 

Le mie emozioni sono sproporzionate rispetto alla mia taglia”. Pensando a Louise Bourgeois, alla sua figura minuta, queste sue emozioni ci appaiono ancora più grandi, realmente incontenibili, perciò perennemente in cerca di un involucro che le possa rappresentare tutte, o quasi. Nella sua vita la Bourgeois, straordinaria scultrice visionaria, chiese alla materia – qualunque essa fosse - di divenire habitat, e alle idee di fisicizzarsi nel nuovo spazio fino a plasmarlo, a dargli una forma. Oggi, spostati di poco sulla parabola del tempo, un’altra artista “abbraccia un’operazione che prolunga il proprio corpo dentro nuovi contenitori plastici” e lo fa attraverso l’uso di una manualità che guarda alle esperienze artistiche contemporanee senza dimenticare i canoni formali della cultura classicaLo scopo di Rabarama, al secolo Paola Epifani, è il medesimo, fare cioè dell’arte un mezzo di sopravvivenza nonché uno strumento di testimonianza del proprio sentire, una pratica solitaria con un risvolto collettivo perché – come ella stessa afferma – “ogni opera è un pezzo di un discorso che se visto e seguito può portare chi la osserva a comprenderne il senso, a condividere un linguaggio”. Ed è allora che ti senti parte di uno stesso Universo. Quello che l’artista ha ricreato per Firenze dal 10 giugno fino a ieri (30 settembre) quando, protagonista assoluta della scena rinascimentale ha dovuto lasciare questo palco per debuttare su altri, si è caratterizzato per il suo dedalo di monumentalità, con giganti antropomorfi a tracciare un percorso carico di simbolismi che ha trascinato e incantato il visitatore. L’artista, è chiaro, ha scelto la strada dell’effetto emotivo ed estetico, tragico o giocoso, purché la scultura torni a farsi viva,disciolta nella teatralità (Rosalind Krauss), comunque a favore dell’azione. In una parola Land Art, arte condotta nel mondo reale, fuori dagli spazi convenzionali espositivi delle Gallerie. Le 30 opere raccolte sotto il titolo ANTICOnforme non hanno avuto la pretesa di costituire un primato nell’ambito dell’arte esperienziale (Performance Art) né tantomeno hanno voluto rappresentare un’esaltazione dell’ego d’artista. Se poi ne dovessimo fare una questione di mero gusto, non esiste nel presente alcun manifesto che regoli la versione dell’estro, spingendone i limiti e dettandone i criteri in un senso oppure in un altro. Perciò il critico può scegliere se condividere la ricerca o prenderne le distanze. Al di sopra di queste si rischia solo di perdere la soglia finendo per intaccare la zona delle polemiche sterili, che non sviliscono il prestigio della persona cui sono rivolte ma anzi la favoriscono in termini di pubblicità. Ed ecco qui: dopo i veleni iniziali – “un salto indietro per la qualità dell’arte pubblica in città”, polemizzava l’assessore comunale Giuliano da Empoli sulle opere di Rabarama – un comunicato dell’ufficio stampa riferisce che a due mesi da quella diatriba, il successo dell’esposizione alle Pagliere e nel complesso di Boboli-Palazzo Pitti confermava il gradimento del pubblico, mentre emissari da S.Pietroburgo stavano trattando l’acquisto di alcuni giganti di marmo per le piazze della città. Questi “energumeni estemporanei”, come li ha ribattezzati l’assessore, hanno avuto evidentemente un Paradiso nonostante il Purgatorio preconizzato. Citando ancora Louise Bourgeois, “uno deve accettare il fatto che gli altri non vedano ciò che tu vedi. Ma questo non costituisce assolutamente un problema”. La forza dell’artista è proprio quella di avere un progetto di auto-rappresentazione talmente originale da risultare spesso indecifrabile. E quando accade che qualcuno riesce a penetrare questa dimensione personale, complessa, allora anche la visione d’artista apparentemente più incorruttibile o pretenziosa avrà raggiunto il suo scopo, trovare cioè un interlocutore che ne riconosca il senso. Ma Firenze, intesa come Comune, è andata oltre, cercando un problema nelle dinamiche di autocandidatura. L’accusa per l’Epifani è di essere arrivata non preceduta da un folder di recensioni, di non essere all’altezza della storia della città. Ci limiteremo a dar conto del fatto che un mercato è indice di tendenze e se Rabarama è nel mercato è perché si tratta di un’avventura creativa in cui molti si riconoscono. Pensiamo agli oltre mille milavisitatori arrivati a Firenze col desiderio di farne parte, nemmeno fossero le comparse in un film. Anche dei più commerciali.

Intervista 

SANDRA SALVATO: Cosa significa per lei incidere sul corpo, scrivere sulla pelle. 
Rabarama: Il corpo è come un pietra su cui scrivere. La mia ricerca è volta alla ricerca del senso della vita. Ero partita convinta che siamo un risultato della genetica, che il nostro destino è già scritto, che fossimo computer biologici che rispondono senza libertà decisionale ad un qualcosa che il fato ha già dato per destinato a ciascuno di noi. Ma poi gli studi, i viaggi… pian piano, insomma, ho cominciato a rivedere questa posizione. Anche perché nella vita non c’è niente di certo e la verità la scopriremo solo quando faremo . Perciò, cosa meglio del corpo che ci accompagna in questo passaggio terreno può essere la tela ideale su cui scrivere ciò che andiamo a studiare, ad intuire, a conoscere. Da qui nasce la mia calligrafia. Il risultato ultimo delle mie ricerche è più legato all’esoterico, all’occulto. Studio i simbolismi legati agli alfabeti antichi. Quello ebraico, ad esempio, divide l’anno in gruppi di giorni e per ogni gruppo c’è una lettera che va a dare il nome a questi angeli che si legano alla nostra data di nascita e quindi al nostro destino. Negli ultimi tempi mi sono accadute molte cose, eventi pesanti che mi hanno fatto rapportare da vicino con la morte. E’ naturale che ti venga la curiosità di sondare lo sconosciuto, ed ecco perché oggi sono più legata all’istinto.  
  
S.S: Pensa di averla abbandonata del tutto questa sua ricerca "scientifica" ? 
R: Gli ultimi lavori sono un mix. Partendo dal fatto che il patrimonio genetico rimane, ho proceduto eliminando la fase della negazione del libero arbitrio, ossia che non siamo assolutamente liberi di fare delle scelte nella nostra vita. In talune condizioni, dati certi luoghi e certi precisi momenti, possiamo fare delle scelte. Molta della nostra esperienza va cambiando le possibilità che troviamo di fronte a noi. 

S.S: Come si pone per lei il body writing o painting, la pittura rispetto all’arte scultorea. 
R: La pittura mi serve per studiare il colore che verrà utilizzato nelle opere scultoree. Cerco di bloccare l'istante fino a quando sarà giunto il momento di creare la scultura. E’ come uno scatto amoroso, blocco l’opera in un ingrandimento. Durante l’esecuzione del lavoro, durante la scultura intendo, ci sono tempi morti: l'essiccazione, il passaggio in fonderia. Possono passare diversi mesi, anche un anno. Allora per fermare il momento emotivo del colore ricorro alla tela. Ma non c’è niente che parta dalla tela, tutto parte dalla materia. La pittura è un secondo amore. Quanto al Body painting lo eseguo da 5-6 sei anni. Durante le mie inaugurazioni mi piace l’idea della scultura che prende vita, ed ogni volta complico un po’ di più le performance delle persone su cui eseguo questo tipo di pittura. A Firenze, per esempio, è andata così: era una specie di circo con acrobati trampolieri. Pareva davvero che le sculture si muovessero. 

S.S: Se le dico "pietra" a cosa pensa. 
R: Penso alla storia, penso che fa parte della nostra cultura artistica, penso a qualcosa di massiccio, di assoluto, di solenne, agli edifici. Vivendo anche in un territorio (Carrara) che genera questo tipo di materiale lo sento molto vicino. Materiale da modellare sia ben inteso, non da scolpire. Il mio primo amore è la terracotta, l’argilla. Nascendo da una madre ceramista non poteva che essere il mio primo contatto. Poi mi sono trovata nella condizione di lavorare il marmo, a livello monumentale. Cambia la situazione di fronte a questi blocchi, il lavoro non può essere fatto da sola, occorrono laboratori di scultura cui appoggiarsi. 

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Trans-calare
, 2004, 
bronzo dipinto. 
Cm 315 x 190 x 75. 
Giardino di Boboli.


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Trans-lettera, 2000, 
bronzo dipinto. 
Cm 178 x 450 x 215. 
Le Pagliere.


S.S. Quanto alle dimensioni, è il tipo di materia che le suggerisce lo spazio o è piuttosto la necessità di rapportarsi con l’ambiente esterno? 
R. Di norma si parte da piccoli bozzetti e si ingrandiscono i momenti più significativi della propria ricerca. E’ anche una sfida. Nella dimensione l’unico fattore importante è il tempo, quello insomma che determina la grandezza. Il resto è andare a ricavare dei vuoti chiusi da incidere con un lavoro certosino. In fondo è anche un premio per uno scultore, soprattutto per uno che si rapporta con l’ambiente esterno dove tutti possono passare e goderne. E’ un dono che si fa agli altri, mentre per se stessi il significato è quello di poter legare ogni volta il proprio lavoro con uno spazio diverso. Lavorare in sinergia oggi con il verde, domani ad esempio con una città. A seconda del luogo bisogna cambiare dimensione. Per Firenze è stato così. 

S.S: Quand’è che una forma può dirsi conclusa? 
R. Non ci si fermerebbe mai. A volte è il lavoro che si blocca, a volte è la voglia di iniziare il lavoro successivo. Il materiale costa, il laboratorio costa, le attrezzature anche, è un ciclo di lavoro che deve essere portato a termine. Tutto fa parte di un ciclo di lavoro. Non bisogna essere troppo leziosi, farebbe perdere freschezza. Bisogna darsi uno stop anche se c’è qualcosa che rimane indietro. 

S.S: Rabarama e Firenze. 
R: Il titolo della mostra – ANTICOnforme - l’ho scelto io e comprende due parole fondamentali: è l’idea di lavorare in un luogo antico, con un materiale antico cui assegno una forma non legata al passato. Si tratta di contemporaneità, non di pura decorazione. Penso a Botero, Mitoraj: si definiscono scultori che fanno soprammobili per piazze. Sicuramente assistiamo al passaggio dagli spazi di un interno a quelli esterni, ma non è detto che le persone che ad esempio girano video o creano performance trasferiscano qualcosa di diverso da chi fa scultura nel senso tradizionale del termine. E’ pur sempre l’elaborazione di un concetto. La scultura fa parte del paesaggio in cui viviamo e deve poter veicolare un messaggio. Deve esistere insomma la volontà di trasferire input a chi guarda. Portare qualcosa che stimoli la curiosità di un pubblico che non conosce il mio lavoro, questa è la cosa più importante. 

S.S: Nell’arte contemporanea non è raro imbattersi in artisti che sono come prodotti per il mercato, pensati a tavolino. Lei come distingue un artista vero da un artista "creato"? 
R: Le manovre determinano un valore solo per il mercato. Alla fine il valore aggiunto di un’ opera è quanto più tu arrivi a comunicare a chi la osserva. Una volta si diceva che l’artista è colui che verrà compreso tra vent’anni, ma allora non c’erano i canali di comunicazione di adesso. La mia Galleria (Vecchiato Art Galleries) vende opere ovunque nel mondo grazie a questi strumenti. Quando c’è un vero interesse del pubblico, questo determina il lavoro dell’artista. Il critico può seguire il proprio gusto, riuscire persino a condizionare un’opinione. Ma non è più questo il sistema di valutazione. Le persone sono stanche di essere trattate come capre. Ognuno si può muovere, viaggiare, toccare con mano, leggere. Sarà dunque il gusto di ciascuno a determinare il successo di un artista. Il fatto stesso che un’opera ti chiami, che tu abbia bisogno di toccarla, di fotografarla. Non c’è bisogno del traduttore, del mediatore. Esistono certo sistemi di mercato per creare prurito nel fruitore, ma alla fine sono questi sistemi che hanno la meglio, che sono l’indice del reale gradimento da parte del pubblico.

S.S: La definizione migliore per il tipo di arte che lei crea: Land art, performance, installazione, scultura tout court.. 
R: C’è tutto il nostro conosciuto, tutto quello che ogni persona vive la ritrova nel mio lavoro. Le sculture sono così diverse, non si può dire – come molti dicono - che io sia ripetitiva. Chi colleziona il mio lavoro possiede tanti parti di un discorso e condivide un linguaggio, entra in sintonia con me, con quello che provo. Mi emoziona pensare che le persone sentano un’energia come fossero dal pranoterapeuta. Chi tocca l’opera è come se venisse proiettato dentro una dimensione parallela. Non so darle una definizione precisa ma è questo che alcuni vedono nel mio lavoro. Come fossero rughe il corpo si segna raccontando il nostro il percorso, a volte di solitudine e la solitudine è un po’ un disagio. 

S.S: Come riesce a coniugare questa sua solitudine con la necessità di rimanere in contatto con l’esterno, di collegarsi con gli altri anche attraverso i mezzi di comunicazione cui lei accenna? 
R: Siamo tutti collegati ma siamo sempre soli. Il fatto stesso di vedere i miei lavori così accovacciati, ripiegati su se stessi traccia un parallelismo con questa società e il disagio che ne deriva. Un disagio comunicativo. Le mie sculture vanno in giro per il mondo ed è già un contatto, un messaggio che mi fa sentire un po’ ovunque, ma sono una privilegiata. Di fatto dilaga un senso di abbandono del sociale, ci si sente sempre più anime isolate, c’è poco lavoro di squadra. 

S.S: Un’ultima domanda, quella antipatica. Cosa più l’ha indignata delle dichiarazioni di Da Empoli? 
R: Penso che ci sia gente che non ha rispetto delle persone. Lo avevo invitato a conoscermi. Alla fine lo devo ringraziare perché mi ha fatto una pubblicità infinita. Ho avuto 200/300 visite al giorno in uno spazio poco conosciuto e frequentato come Le Pagliere. Significa dare una mano alla città, no? La verità è che mi pare di essere arrivata nel mezzo di un momento già critico tra la Sovrintendenza e il Comune. Il lavoro che è stato portato qui è stato pensato proprio per Firenze. Se poi il problema è il lato commerciale, beh ci sono dei costi nel mio lavoro di cui devo certamente rientrare. Perciò ben venga Telemarket, ben venga un pubblico meno selezionato ma senz’altro molto appassionato e realmente catturato dalle mie opere. Come le ho detto sono le persone, chiunque esse siano, dall’operaio al collezionista, sono loro che scelgono, che determinano il successo di un artista. 


In copertina: Rabarama

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RIPENSARE LA DEMOCRAZIA CON L’ARTE. A FIRENZE, ALLA STROZZINA
Autore: Sandra Salvato
Data: 28.09.2011

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Vai all'evento: DECLINING DEMOCRACY. Ripensare la democrazia tra utopia e partecipazione

Vai alla sede: CCCS - Centro di Cultura Contemporanea Strozzina

Gli artisti correlati: Cesare PietroiustiThomas HirschhornJuan Manuel EchavarríaDemocraciaThomas FeuersteinThomas KilpperBuuuuuuuuuRoger Cremers,Francys AlysMichael Bielicky & Kamila B. RichterLucy KimbellArtur Żmijewski.


SI APRE IL DIALOGO TRA ARTISTI-ATTIVISTI E VISITATORI-SPERIMENTATORI. LA MOSTRA DECLINING DEMOCRACY COME PIATTAFORMA PER LA CREAZIONE DI UNA NUOVA SOCIETA’. DEMOCRATICA. 


Perché Declining Democracy? Forse perche ci siamo persi, la democrazia è in declino, la morale è in declino. Parole sante, parole di James Bradburne, Direttore di Palazzo Strozzi a Firenze che battezza così la nuova provocatoria mostra allaStrozzina (CCCS) ideata e coordinata da Franziska Nori che si è aperta il 23 settembre e andrà avanti fino al 22 gennaio. Il visitatore ha tutto l’autunno e una bella fetta dell’inverno per imparare a riflettere sulle stagioni della politica e della partecipazione popolare. Si dirà che le installazioni, dodici in tutto, servono come una route di politica visiva, una passaggio documentario di immagini e parole (a volte neppure quelle) in cui si spiega – o si tenta – l’imbuto della democrazia che, partita come ideale e modello alto di convivenza, finisce per strozzarsi nelle maglie della crisi, dei valori dell’uomo, della sua fiducia nelle istituzioni, della moneta. Ma allora che c’entra l’arte? L’arte alla fine c’entra sempre, anche perché se è vero ciò che si dice, che l’arte non è altro che un ponte tra l’uomo e chi c’è sopra (ognuno crede in quello che vuole), non si capisce perché non debba essere interpretata quale strumento nel/per lo strumento. Prendiamo ad esempio il video catalizzante del belga Francis Alys, When Faith Moves Mountains, che nel 2002 in Perù convinse cinquecento volontari a prendere la vanga in mano e spostare di circa dieci centimetri rispetto alla sua posizione originaria, una duna di sabbia larga quasi duecento metri. Un video considerato un manifesto dell’arte sociale e della riflessione sul rapporto tra individui, collettività ed utopia. Utopia già. Perché solo il vento e il tempo – che tradotto in politichese significa una vigorosa politica rivoluzionaria supportata dalla partecipazione popolare – potrebbe cambiare la morfologia del terreno e quindi dell’assetto sociale. Insomma, la spinta deve poter arrivare dalla collettività e anche quando il cambiamento apparisse minimo, se non addirittura impercettibile – vi sfido a vedere la differenza tra la posizione originale della duna e la nuova – è necessaria un’azione di massa nonché una fides che accomuna cittadini censiti e non per mutare la situazione. Arte contemporanea e riflessione politica e sociale, la mostra vuole nascere dal confronto con la situazione attuale a livello mondiale. Ma come imparare la partecipazione se l’arte non si fa esempio? La risposta è nell’interattività, nella fruizione. Da oggetto muto e irreversibile nello sguardo dell’astante l’opera diviene esperienza, occasione, comunicazione a doppio senso di marcia. Il visitatore deve poter dire la sua per completare il senso della proposta artistica. Qui non interessa il bello e il brutto ma il progetto da definire, la bozza che deve diventare documento scritto a più mani, quelle iniziali dell’autore e quelle finali di chi ci si trova davanti. Persino la metafora lascia il tempo che trova. Ciò che si vede in mostra non allude, non rimanda allegoricamente più di tanto, ma parla chiaro, testimonia, studia la retorica e il linguaggio come farebbe un qualsiasi McLuhan del nuovo millennio. Il media, lo strumento di comunicazione è il messaggio. Ecco allora spuntare in una sala almeno tre file di banchi di scuola, una lavagna, qualche grafico. Benvenuti nell’Ufficio di formazione politica di Cesare Pietroiusti. Qui si affrontano temi come la distanza tra la politica e i cittadini, le nuove forme di protesta, una vera “scuola quadri” che invece di formare, come era in passato, la classe dirigente, propone una nuova riflessione sul ruolo e sulla necessità dei futuri leader. Gli strumenti a disposizione dell’artista/formatore sono e saranno la non disciplinarietà, l’aspetto performativo e la comunicazione. 

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Michael Bielicky & Kamila B.Richter, Garden of Error and Decay 2010

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Francis Alys, When Faith moves Mountains 2002

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Democracia, Ser y Durar, La Almudena Civil Cemetery, Madrid
Courtesy Democracia


Siamo di fronte alla libertà dell’arte, quella postulata da Friedrich Schiller e ricordata dall’autrice Piroschka Dossi. “Non è una mera coincidenza – scrive in una nota di premessa alla mostra – che l’arte come mera espressione di un individuo creativo sia emersa dalla lotta europea per la libertà con il sorgere dei valori democratici e dei diritti civili”. E neppure è un caso che l’epicentro di molti risvegli, di nuove prospettive, sia stato proprio Firenze, la città dove oggi assistiamo alla rappresentazione del legame tra arte e politica. Sono i cittadini i protagonisti responsabili, gli attori-artisti della società, i soggetti chiamati in causa dalla mostra e da Peter Weibel, teorico dei media. Il legame che si instaura tra spettatore e opera d’arte è così forte da creare un universo culturale fatto di dialogo, partecipazione. In questo senso si parla di responsabilità: il visitatore, che tale più non è almeno nel senso di un individuo che guarda e passa oltre, deve essere consapevole che la condivisione di un pensiero è l’atto primo di un mutamento, di un processo di democratizzazione. E’ la nuova agorà, il nuovo mercato delle idee, la nuova piazza per il dibattito. E’ la Strozzina il centro che fa alzare lo sguardo sui momenti cruciali della storia contemporanea che ci comprende tutti e ci chiede divotare per la costruzione di una società migliore. A questo proposito, alla fine del percorso, le persone sono invitate ad esprimere un giudizio attraverso una cartolina referendaria consegnata all’inizio del giro, proprio come usa in politica. La domanda è: la maggioranza ha sempre ragione? E’ giusto insomma che la maggioranza dei cittadini possa decidere per il bene di tutti? Dal Medio Oriente, passando per l’Africa, L’Europa e l’America Latina, la questione è universale. E’ geopolitica disegnata con l’arte. Ad arte. Ogni settimana, sul sito della Strozzina (ww.strozzina.org), e sulla pagina di Facebook, saranno aggiornati i risultati e sarà dato spazio alla discussione sui temi affrontati in mostra. Dal 6 ottobre al 19 gennaioogni giovedì, si terranno lecture, proiezioni speciali e dibattiti. Infine le attività didattiche del Dipartimento Educazione e Mediazione proporranno un programma di attività per giovani e adulti, scuole e famiglie con interventi di esperti nel campo dell’attività sociale in ambito politico ed economico. 

In copertina: Thomas Klipper, Heartfield Berlusconi 2009

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ArsKey Magazine | Articolo


LA MODERNITÀ CERCATA DI PICASSO, MIRÒ E DALÌ IN MOSTRA A PALAZZO STROZZI A FIRENZE.
Autore: Sandra Salvato
Data: 15.03.2011

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Vai all'evento: Picasso, Miró, Dalí. Giovani e arrabbiati: la nascità della modernità

Vai alla sede: Palazzo Strozzi

Gli artisti correlati: Juan MiróPablo PicassoSalvador Dalì






“Come un film da vedere a ritroso”. Dice James Bradburne, Direttore della Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze, che la mostra appena inaugurata al piano nobile del Palazzo, “Picasso, Miró, DalíGiovani e arrabbiatila nascita della modernità” è strutturata come la settima arte, è un copione invertito sul piano temporale che sceglie la fine al posto dell’inizio (quello anagrafico) e non tralascia neppure l’ingrediente principale, ossia l’elemento sorpresa, il segreto da rivelare che sul finale fa trovare la verità delle cose. Proprio vero. L’allestimento, curato da Eugenio Carmona (professore di Storia dell’arte all’Università di Malaga) e da Christoph Vitali (già direttore della Schirn Kunsthalle di Francoforte, del Haus der Kunst di Monaco, della Fondation Beyeler di Basilea e della Kunst- und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland di Bonn), è l’ossequio ad un cinema minimale e colto, un percorso che richiede pazienza, voglia di riflettere e mette persino alla prova le capacità mnemonica per il gioco di incastri. Si potrà obiettare che la mostra è un piccolo rompicapo fatto di tanti ma non tutti i tasselli del puzzle. Ci sono in effetti tre magnifici autori spagnoli cui la critica fa corrispondere la nascita della modernità, tre vite accomunate dal luogo di origine – la Catalogna – dalla passione per la pittura, per la politica, dal fervore della gioventù, dalla voglia di abbracciare molto di più rispetto a ciò che si conosceva già. Si spazia in ogni genere di stile e di espressione, passaggi obbligati nella graduale maturazione di un’artista senza magari soffermarsi su alcune pieghe di tali evoluzioni, sulle coincidenze temporali che avrebbero potuto portare in scena persino un breve excursus sulla guerra civile e il periodo franchista. Ma alla fine, terminato il viaggio lungo i pannelli che simili alle vele bianche mettono in mostra il “cielo” rinascimentale del Palazzo sopra un mare di modernità, abbiamo abbracciato la verità delle cose, la stessa che andavano cercando i tre pittori tra la Spagna, l’Italia e la Francia agli inizi del secolo scorso. Esiste di fatto un precedente: una mostra analoga fu realizzata vent’anni fa, nel ’91, presso la Schirn Kunsthalle di Francoforte e al Reina Sofia di Madrid. S’intitolava anch’essa Picasso, Mirò, Dalì. Le origini del modernismo spagnolo 1900-1936 ed è qui che vanno ricercate semmai le altre risposte, quelle non contemplate dall’indagine odierna volta ad offrire tutt’altra chiave di lettura al visitatore. Che l’evento meriti per la sua unicità lo dimostrano anche gli spagnoli, presi da un istintivo – per quanto tardivo - senso di paternità e di gelosia rispetto all’evento scippato dai parenti italiani. Bravi noi quindi, bravo Palazzo Strozzi che ha fatto leva persino su un paio di rapidi passaggi di Picasso a Firenze (praticamente passati inosservati), per rafforzare il senso di “inedito” relativo alla mostra sul maestro e gli emeriti colleghi del tempo. 


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Salvador Dalí
Ritratto di mia sorella [Retrat de la meva germana
Retrato de mi hermana] 1925
Figueres, Fundació Gala-Salvador Dalí, NI 0209


Una prima mondiale soprattutto per il Cahier n.7 proveniente dal Museo della casa natale di Picasso a Malaga ed esposto integralmente in questa rassegna, il quaderno che contiene gli schizzi del rivoluzionario Les Demoiselles d’Avignon e che ha rappresentato sollecitazioni fortissime per Dalí e Miró segnando l’inizio del linguaggio dell’arte moderna. Più di sessanta opere della produzione giovanile di Picasso, Mirò e Dalì, oltre cento schizzi picassiani provenienti dai più importanti musei spagnoli, dal Metropolitan Museum of Art e da collezioni private. Riannodando le fila di un racconto che ha cambiato per sempre la storia dell’arte il visitatore è condotto attraverso quattro spazi organizzati come “pensieri” o riflessioni che coprono l’arco di un trentennio (Quando Dalì dice di aver incontrato Picasso, Parigi 1926 – Genius Loci Mirò Dalì, Madrid, Catalogna, Parigi, 1925 -1915 – Quando Mirò incrociò Picasso, Barcellona 1917 e dintorni – La Nascita della modernità. Picasso origine e trasformazione, Barcellona, Madrid, Parigi, 1907-1895) cuciti ad un epilogo che mostra insieme i tre capolavori, Donna che piange del 1937 di Picasso, Composizione Geometrica di Mirò del ’33 e Arlecchino di Dalì risalente al 1926. Spiega Carmona, “questa storia a episodi e pensieri che racconta le fasi della formazione (…) avrebbe potuto avere varie geografie e varie cronologie. Il giovane Picasso si fa strada da solo, e non è possibile fissare un punto di partenza comune per tutti e tre gli artisti. E’ invece possibile fissare un punto d’arrivo: quello della visita di Dalì a Picasso”. Narra infatti la leggenda che nella primavera del 1926 il primo andò a trovare il secondo a Parigi e che tale momento abbia rappresentato un istante di rivelazione, decisivo. Nessuno potrà mai dire con certezza se l’incontro sia realmente accaduto, ciò che è sicuro è che per Dalì Picasso rappresentò un nuovo archetipo e fu senz’altro un suo massimo desiderio poterlo incontrare “ancora prima di visitare il Louvre”. Un tris di intelligenze vivaci, impetuose più che arrabbiate come suggerito dal titolo della mostra. La rabbia cui si allude è più verosimilmente l’esplosione dell’energia giovanile, la voglia di ribellarsi alle convezioni dell’epoca. Ricorda ancora il curatore spagnolo che la Catalogna è un territorio dove la conquista della modernità è stata una strada affatto facile da percorrere. Dopo Goya si assiste ad una sorta di immobilismo culturale per cui abdicare alle proprie tendenze artistiche per sperimentare qualcosa di nuovo fu sinonimo di rottura. La mostra sostiene la tesi della radice comune di uno stile che rappresentò la risposta coraggiosa di tre raffinati talenti che rifiutarono l’arte borghese e l’idea che potesse promuovere un’identità culturale tra ricchi. La presa di coscienza fu dunque il sasso nello stagno, il seme da cui poi sarebbero germogliate le varie correnti, i c.d. “ismi” artistici tra Otto e Novecento (v. Modernismo, Fauvismo, Cubismo, Espressionismo, Futurismo, Astrattismo, Surrealismo, etc..). Promossa e organizzata dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze e dalla Fondazione Palazzo Strozzi con il supporto della Soprintendenza per il Polo museale fiorentino, la mostra è concepita in modo assolutamente innovativo, è un’esperienza di completa immedesimazione nella straordinaria atmosfera artistica dei primi anni del Novecento. Fino al 17 luglio. 

Prenotazioni e attività didattiche T. +39 055 2469600 F. +39 055 244145 prenotazioni@cscsigma.it

Orari Tutti i giorni 9.00-20.00-Giovedì 9.00-23.00

Accesso in mostra consentito fino a un’ora prima dell’orario di chiusura 

In copetina: 
Pablo Picasso
I due saltimbanchi (Arlecchino e la sua
compagna) [Les Deux saltimbanques (Arlequin et
sa compagne)] settembre-ottobre 1901
Mosca, The State Pushkin Museum of Fine Arts